La Cassazione penale, con la sentenza n. 17006/2023, pronunciandosi in tema di responsabilità amministrativa da reato degli enti ex D.Lgs. 231/2001 ritenuta in relazione a reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, ha confermato che per la configurabilità della stessa non sono ex se sufficienti la mancanza o inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione; bensì è necessaria la dimostrazione della “colpa di organizzazione”, e cioè dell’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo. Con la precisazione che i criteri di imputazione oggettiva della responsabilità “231”, ovvero l’interesse e il vantaggio in capo alla società, vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all’evento, essendo possibile che l’agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l’evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell’ente, essendovi dunque perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per la persona giuridica.

Orientamenti giurisprudenziali

Conformi

Cass. pen., Sez. V, Sent., 15 febbraio 2022, n. 18413

Cass. pen., Sez. IV, Sent. 8 gennaio 2021, n. 32899

Cass. Pen., Sez. U, Sent., 24 aprile 2014, n. 38343

Cass. Pen., Sez. VI, Sent., 18 febbraio 2010, n. 27735

Difformi

Non si rinvengono precedenti

Con la sentenza in commento la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla configurabilità della responsabilità amministrativa da reato degli enti ex D.Lgs. 231/2001 nell’ambito di un procedimento per un infortunio sul lavoro mortale. La Corte d’appello di Bologna aveva confermato la sentenza del Tribunale di Modena, resa all’esito di giudizio abbreviato, con la quale il datore di lavoro era stato condannato per il reato di omicidio colposo di cui all’art. 589, c. 2, c.p. ai danni di un lavoratore, e la società era stata dichiarata responsabile, ai sensi dell’art. 25 septies del D.Lgs. n. 231 del 2001, dell’illecito amministrativo dipendente dal reato e condannata alla relativa sanzione pecuniaria.

Soffermandosi con il presente commento sulla responsabilità ex D.Lgs. 231/2001 contestata alla società, la difesa ricorrendo per Cassazione lamentava, tra gli altri, vizio motivazionale circa il ravvisato vantaggio derivante dal reato. La Corte territoriale nulla avrebbe specificato in ordine all’entità del vantaggio che si assumeva conseguito da parte dell’ente, quale indispensabile presupposto per inferire la prova dell’oggettiva prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto rispetto alla tutela dei lavoratori, nonché, ai sensi dell’art. 5D.Lgs. 231/2001, per poter condannare la persona giuridica. Gli stessi rilievi la difesa articolava anche con riferimento alla presunta inadeguatezza organizzativa derivante dalla asserita mancata previsione di istruzioni specifiche ai dipendenti, non avendo la Corte indicato in cosa sarebbe consistito il vantaggio conseguito, né l’entità dello stesso.

Dunque, nel pronunciarsi sulla fondatezza dell’impugnazione, la Cassazione ha innanzitutto precisato che quella degli enti derivante da reato rappresenta un modello di responsabilità che, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, ha finito con il configurare un tertium genus, compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza e i criteri d’imputazione oggettiva di essa (Cass. Pen., Sez. U, Sent. 24 aprile 2014, n. 38343, Espenhahn). Il legislatore, peraltro, ha previsto specifici criteri di imputazione di tale responsabilità, ovvero l’interesse o il vantaggio di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 231 del 2001), che sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il primo esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, il secondo ha connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dall’illecito (Cass. Pen., Sez. U, Sent., 24 aprile 2014, n. 38343, cit.).

Ciò premesso, come altresì chiarito dalle summenzionate Sezioni unite nella sentenza in commento, nel caso di responsabilità degli enti ritenuta in relazione a reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, si parla poi di “colpa di organizzazione“, da intendersi in senso normativo, ricollegata cioè al rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individui i rischi e delinei le misure atte a contrastarli. Per non svuotare di contenuto la previsione normativa che ha inserito nel novero di quelli che fondano una responsabilità dell’ente anche i reati colposi, posti in essere in violazione della normativa antinfortunistica (art. 25 septiesD.Lgs. 231/2001), si è peraltro osservato, in via interpretativa, che i citati criteri di imputazione oggettiva vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all’evento, in conformità alla diversa conformazione dell’illecito, essendo possibile che l’agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l’evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell’ente. A maggior ragione, vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l’ente. Si è così salvaguardato il principio di colpevolezza, con la previsione della sanzione del soggetto meta-individuale che si è giovato della violazione.

Peraltro, come già in altre occasioni la Suprema Corte ha avuto modo di precisare, ai fini della configurabilità della responsabilità da reato degli enti, non sono ex se sufficienti la mancanza o inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione, essendo necessaria la dimostrazione, per l’appunto, della “colpa di organizzazione”, che caratterizza la tipicità dell’illecito amministrativo ed è distinta dalla colpa degli autori del reato (Cass. pen., Sez. V, Sent., 15 febbraio 2022, n. 18413). Nell’affermare tale principio, la Corte di legittimità ha spiegato che la struttura dell’illecito addebitato all’ente è incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale la relazione funzionale tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno funzione di rafforzare il rapporto di immedesimazione organica, escludendo che possa essere attribuito a quest’ultimo un reato commesso sì da soggetto incardinato nell’organizzazione, ma per fini estranei agli scopi di questa (richiamando Cass. pen., Sez. IV, Sent. 8 gennaio 2021, n. 32899).

Sulla base di tali considerazioni la Cassazione è giunta alla conclusione, dunque, che l’ente risponde per fatto proprio e che – per scongiurare addebiti di responsabilità oggettiva – deve essere verificata una “colpa di organizzazione” della società, dimostrandosi che non sono stati predisposti accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato. È il riscontro di un tale deficit organizzativo a consentire l’imputazione all’ente dell’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo e spetta all’accusa, pertanto, dimostrare l’esistenza dell’illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa dell’ente e l’avere essa agito nell’interesse del secondo, previa individuazione di precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno all’interesse dell’altro (Cass. Pen., Sez. VI, Sent., 18 febbraio 2010, n. 27735). Si tratta di un’interpretazione che, in sostanza, attribuisce al requisito della “colpa di organizzazione” dell’ente la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, di elemento costitutivo cioè del fatto tipico, integrato dalla violazione “colpevole” (ovvero rimproverabile) della regola cautelare. Essa va dimostrata dall’accusa e l’ente può dimostrarne l’assenza, essendo gli elementi costitutivi dell’illecito rappresentati dalla sopra descritta immedesimazione organica “rafforzata”, ma anche da tale colpa di organizzazione, dal reato presupposto e dal nesso causale tra i due (Cass. pen., sez. V, Sent., 15 febbraio 2022, n. 18413, cit.).

Calando tali principi al caso di specie, gli Ermellini hanno ritenuto che il ragionamento probatorio, desumibile anche dalla lettura combinata delle due sentenze di merito, consentisse di ricavare in che cosa fosse consistito il vantaggio al quale era stata ricollegata la responsabilità amministrativa dell’ente e di valutarne l’oggettivo rilievo in termini di colpa di organizzazione. Il primo giudice aveva affermato che il deficit di sicurezza dal quale era derivato l’evento mortale era dipeso dal “minor impegno” da parte dei soggetti apicali, con conseguente vantaggio economico; e la Corte territoriale aveva ravvisato tale vantaggio nella mancata formazione di squadre di lavoro (personale aggiuntivo) per svolgere in sicurezza mansioni pericolose, omissione a sua volta direttamente ricollegata al problema organizzativo accertato (mancato affiancamento e informazione adeguata del lavoratore). Tale ragionamento non si traduceva nella sovrapposizione della regola cautelare violata con la colpa di organizzazione imputabile alla società, atteso che il complesso delle cautele violate dal soggetto apicale dell’ente non era estraneo agli scopi di questo. Dal canto suo, la difesa si era limitata ad affermare che la giustificazione dei giudici territoriali sarebbe stata apparente, non avendo costoro quantificato il vantaggio; rilievo che tuttavia confondeva i piani diversi di valutazione, l’entità del vantaggio rilevando semmai ai fini della valutazione della graduazione della sanzione pecuniaria così come previsto dall’art. 12D.Lgs. n. 231/2001. La Suprema Corte ha pertanto rigettato il ricorso e condannato la società al pagamento delle spese processuali.

Riferimenti normativi:

Art. 589 c.p.

Art. 25 septiesD.Lgs. n. 231/2001

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